RESPONSABILITA’ SANITARIA: I CRITERI DI RIPARTO DELL’ONERE DELLA PROVA TRA PAZIENTE E STRUTTURA SANITARIA

Il paziente che agisce in giudizio per il risarcimento del danno da responsabilità sanitaria ha l’onere di dimostrare (anche presuntivamente) il nesso di causa tra la condotta denunciata e l’evento dannoso. Non deve invece dimostrare la violazione delle leges artis nell’esecuzione della prestazione sanitaria. Resta infatti in capo alla struttura o al professionista il compito di contestare la fondatezza della domanda, dimostrando che la prestazione è stata eseguita in modo corretto oppure che l’inadempimento è dipeso da una causa non imputabile.”

“L’accertamento del nesso di causalità nella responsabilità sanitaria è improntato alla regola di funzione della preponderanza dell’evidenza (o del “più probabile che non”), la quale, con riguardo al caso in cui, rispetto a uno stesso evento, si pongano un’ipotesi positiva e una complementare ipotesi negativa, impone al giudice di scegliere quella rispetto alla quale le probabilità che la condotta abbia cagionato l’evento risultino maggiori di quelle contrarie, e con riguardo, invece, al caso in cui, in ordine allo stesso evento, si pongano diverse ipotesi alternative, comporta che il giudice dapprima elimini, dal novero delle ipotesi valutabili, quelle meno probabili e poi analizzi le rimanenti ipotesi ritenute più probabili, selezionando, infine, quella che abbia ricevuto, secondo un ragionamento di tipo inferenziale, il maggior grado di conferma dalle circostanze di fatto acquisite al processo, in ogni caso esercitando il proprio potere di libero apprezzamento di queste ultime tenendo conto della qualità, quantità, attendibilità e coerenza delle prove disponibili, dalla cui valutazione complessiva trarre il giudizio probabilistico.

(Corte di Cassazione Civile, Sezione Terza, ordinanza 05 marzo 2024 n. 5922)

Il caso deciso dalla Corte di Cassazione, Terza Sezione Civile, con l’ordinanza n. 5922/2024, costituisce l’occasione per ribadire alcuni principi di massima importanza nei contenziosi sulla responsabilità sanitaria, ovvero quelli inerenti al riparto dell’onere della prova tra paziente e struttura sanitaria e all’accertamento del nesso causale.

In tema di riparto dell’onere probatorio, l’Ordinanza in epigrafe ribadisce un principio che può ritenersi ormai consolidato nella giurisprudenza, ovvero che incombe al paziente l’onere di dimostrare il nesso causale tra la condotta dei sanitari ed il danno subito (c.d. causalità materiale) fornendo prove sufficienti per dimostrare che il danno lamentato sia conseguenza diretta della condotta sanitaria, mentre incombe sulla struttura sanitaria – dopo che il paziente abbia assolto al proprio onere probatorio – l’onere di provare l’esatto adempimento della prestazione medica ovvero che la prestazione sanitaria sia stata eseguita correttamente ed in conformità delle leges artis, secondo le regole della buona pratica medica.

In particolare, la vicenda posta all’attenzione della Suprema Corte traeva origine da un ricorso ex art. 702 bis c.p.c., preceduto da un accertamento tecnico preventivo ex art. 696 bis c.p.c., con cui una paziente, a seguito di un intervento chirurgico per ipertrofia prostatica presso il reparto di Urologia dell’Azienda Sanitaria Locale “Città di Torino”, subiva un’erronea manovra di anestesia spinale.

Nello specifico, durante l’intervento, veniva praticata un’anestesia spinale con bupivacaina nello spazio vertebrale L2-L3. L’anestesista, eseguendo la manovra in modo imperito, provocava un vivo dolore alla paziente, simile a una scossa elettrica.

Nel mese successivo, la paziente iniziava a lamentare disturbi alla spalla destra e difficoltà respiratorie, che la costringevano a recarsi due volte al Pronto Soccorso e a sottoporsi a diverse visite ortopediche e neurologiche. A poco più di due mesi dall’intervento, le veniva diagnosticata la paralisi del nervo ascellare destro e dell’emidiaframma sinistro, attribuita come possibile reliquato dell’anestesia, nonostante una preesistente erniazione cervicale.

La paziente conveniva quindi in giudizio la struttura sanitaria richiedendo il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti a causa dell’erronea esecuzione dell’anestesia.

Il Tribunale accoglieva la domanda risarcitoria, mentre la Corte d’Appello riformava la sentenza di primo grado rigettando la domanda, sul presupposto che il paziente non avesse fornito la prova del nesso causale tra la condotta dei sanitari e il danno lamentato in quanto: non aveva formulato alcuna richiesta di prova testimoniale diretta a dimostrare l’allegata condotta imperita dell’anestesista e l’effettività del conseguente stress algico da lui subìto, quale concausa dell’irritazione radicolare e della sofferenza neurologica; la prova del nesso causale non si poteva desumere nemmeno in via indiziaria o presuntiva dagli esiti della CTU svolta nella precedente fase di ATP, atteso che l’espletato accertamento tecnico preventivo si era espresso in termini puramente ipotetici e di mera probabilità.

Tanto precisato in fatto, la Suprema Corte nell’ordinanza in esame ha ritenuto fondati i motivi di censura sollevati dal ricorrente, avendo la Corte d’appello: erroneamente operato una indebita sovrapposizione di due distinti elementi costitutivi della fattispecie di responsabilità contrattuale sanitaria (da un lato, la condotta imperita del medico, concretante il fatto di inadempimento; dall’altro, il nesso causale materiale tra questa condotta e l’evento di danno subito dal paziente); violato le regole di riparto dell’onere probatorio, indebitamente onerando il paziente-creditore della prova dell’inadempimento della struttura sanitaria-debitrice; disatteso le regole di funzione della causalità, omettendo di procedere all’accertamento del nesso causale materiale avvalendosi degli elementi probatori precostituiti forniti dal paziente e delle risultanze dell’indagine tecnica, sulla base del criterio del “più probabile che non” e pretendendo, al riguardo, dal creditore una inammissibile prova dichiarativa, non conciliabile con la natura relazionale di tale elemento, che richiede l’espressione di un giudizio e non la mera descrizione di una situazione di fatto.

Nel caso di specie la Suprema Corte ha quindi confermato quello che oramai è l’indirizzo giurisprudenziale costante in materia di giudizi di responsabilità medica, ossia quello secondo il quale  spetta alla struttura sanitaria o al professionista provare – dopo che il paziente abbia fornito la prova del nesso causale tra la prestazione medica e il danno lamentato –  che la prestazione sanitaria sia stata eseguita con diligenza, prudenza e perizia, oppure che l’inadempimento (rectius l’inesatto adempimento) sia dipeso dall’impossibilità di eseguirla esattamente per causa non imputabile.

Nella specifica vicenda in esame, la struttura sanitaria avrebbe dovuto dimostrare che la manovra anestesiologica era stata compiuta correttamente nel rispetto delle regole tecniche proprie della professione medica, prova che, secondo i Giudici di Legittimità, non è stata fornita.

Questo risultato in merito alla ripartizione dell’onere probatorio, oggi pacifico, è in realtà il punto d’approdo di una lunga evoluzione giurisprudenziale maturata nel corso degli ultimi decenni.

In passato, già prima dell’entrata in vigore della legge n. 24/2017 (Riforma Gelli), la giurisprudenza è stata a lungo ondivaga sul riparto dell’onere probatorio, interrogandosi se dovesse essere il paziente a provare la connessione causale tra l’azione o l’omissione del medico e il danno da lui subito, oppure se spettasse al medico provare l’assenza di nesso di causalità tra il proprio intervento e il pregiudizio patito dal paziente.

La pronuncia oggetto di analisi evidenzia al riguardo come la Suprema Corte sin dagli ultimi anni del secolo scorso abbia chiarito che la responsabilità della struttura sanitaria vada qualificata in termini di responsabilità contrattuale in quanto conseguente all’inadempimento delle obbligazioni derivanti da contratto atipico di spedalità che la struttura deve adempiere personalmente ai sensi dell’art. 1218 c.c., o mediante il personale sanitario rispondendone ex art. 1228 c.c., e che pertanto l’onere probatorio che grava sull’attore danneggiato non è quello proprio della responsabilità aquiliana ex art. 2048 c.c. – nel quale il danneggiato/paziente dovrebbe dimostrare tutti gli elementi costitutivi dell’illecito – ma quello proprio della responsabilità contrattuale «in base al quale il creditore che abbia provato la fonte del suo credito ed abbia allegato che esso sia rimasto totalmente o parzialmente insoddisfatto, non è altresì onerato di dimostrare l’inadempimento o l’inesatto adempimento del debitore, spettando a quest’ultimo la prova dell’esatto adempimento».

Con l’ordinanza in epigrafe la Cassazione chiarisce anche la differenza tra nesso causale e inadempimento. Il nesso causale è la relazione tra la condotta del sanitario e il danno subito dal paziente. È un concetto relazionale che identifica l’azione del sanitario come causa diretta del danno. L’inadempimento, invece, si riferisce alla mancata esecuzione o all’errata esecuzione della prestazione sanitaria secondo le regole della buona pratica medica. Mentre il paziente deve dimostrare il nesso causale, è compito della struttura sanitaria dimostrare che non vi è stato inadempimento o che questo è dovuto a cause non imputabili alla struttura stessa.

Secondo l’insegnamento della Corte, pertanto, in ambito di responsabilità sanitaria, il nesso causale non è una mera circostanza di fatto, ma un concetto relazionale che identifica una relazione tra due eventi, dove uno è la conseguenza dell’altro. La sua formulazione richiede un’attività teoretico-dogmatica e un ragionamento inferenziale probatorio. L’attività teoretico-dogmatica si avvale delle regole di struttura, ancorate ai criteri della condizione necessaria, causalità adeguata, scopo della norma e rischio specifico per la causalità materiale, e di quello della consequenzialità immediata e diretta per la causalità giuridica. L’attività inferenziale probatoria utilizza le regole di funzione o probatorie, basate su criteri inferenziali per accertare concretamente il rapporto di causalità con riguardo a una specifica fattispecie processuale. Si utilizza il criterio della preponderanza dell’evidenza (“del più probabile che non”), distinto dalla prova “oltre ogni ragionevole dubbio” richiesta nel giudizio penale.

La regola probatoria per l’accertamento del nesso causale, si specifica poi in due criteri distinti: quello del “più probabile che non” secondo cui il giudice valuta se una certa condotta è causa di un evento dannoso basandosi sulla probabilità maggiore che l’evento sia conseguenza della condotta piuttosto che no; quello  della “prevalenza relativa”, secondo cui il giudice valuta se la probabilità che una condotta sia la causa di un evento dannoso possa prevale sulle probabilità delle altre cause alternative o concause esistenti. In sostanza, il giudice deve reputare come “vero” l’enunciato che ha ricevuto il grado relativamente maggiore di conferma sulla base delle prove disponibili.

Conseguentemente, qualora l’evento dannoso sia ipoteticamente riconducibile ad una pluralità di cause, in applicazione progressiva dei due criteri, il giudice di merito deve dapprima eliminare le ipotesi meno probabili, e poi tra le rimanenti, scegliere quella con il maggior grado di conferma.

Orbene, applicando tali criteri al caso specifico, la Corte di Cassazione rileva che la Corte d’Appello avrebbe dovuto formulare un giudizio probabilistico sul nesso causale, tenendo conto di vari elementi di prova, tra cui le evidenze documentali e le risultanze dell’accertamento tecnico preventivo. La pronuncia in commento mette in luce come la consulenza tecnica d’ufficio aveva indicato la manovra anestesiologica come possibile fattore che aveva favorito la patologia dannosa.

Il giudizio probabilistico, infatti, doveva considerare non solo le affermazioni del paziente e le prove documentali che mostrano la vicinanza temporale tra l’intervento anestesiologico e i problemi medici successivi, ma soprattutto i risultati della consulenza tecnica preventiva. Quest’ultima aveva indicato che l’anestesia poteva aver causato l’irritazione del nervo, aggravando una patologia preesistente e provocando dolore e problemi neurologici. Il giudice non aveva svolto questa valutazione complessiva, limitandosi invece a notare l’assenza di prove dettagliate da parte del paziente.

In definitiva l’ordinanza chiarisce che la mancata dimostrazione, da parte del paziente, di elementi fattuali facilmente provabili non pregiudica necessariamente l’esito del giudizio.

Difatti il paziente non deve dimostrare l’errore medico, ma solo il nesso causale tra la condotta medica e il danno lamentato; una volta provato il nesso causale, spetta poi alla struttura ospedaliera dimostrare che la prestazione è stata eseguita in modo corretto oppure che l’inadempimento è dipeso da una causa non imputabile.

Tale principio facilita certamente la posizione processuale dei pazienti danneggiati che agiscono in giudizio per ottenere il risarcimento dei danni subiti a causa di una condotta di malpractice medica, poiché non sono i pazienti-attori a dover dimostrare nel dettaglio il percorso terapeutico intrapreso dalla struttura ospedaliera alla ricerca di comportamenti non idonei, ma è la struttura sanitaria convenuta in giudizio a dover dimostrare l’esatto adempimento della prestazione, nel caso di specie la corretta esecuzione della manovra anestesiologica nel rispetto delle regole tecniche proprie della professione esercitata.