“l’azienda sanitaria non può addurre l’imprevedibilità dell’aggressione per sfuggire alla responsabilità ex art.2087 c.c. per l’evento infortunistico in esame. Dei rischi correlati al pericolo di aggressioni al personale sanitario (in particolare di quello addetto ai “servizi di emergenza-urgenza”) l’azienda sanitaria era pienamente edotta, e va dunque ritenuta responsabile, ove non fornisca la prova di aver ideato ed attuato un programma protettivo in linea con quanto previsto dalla raccomandazione n°8/2007 o, quanto meno, una propria procedura alternativa (ma non meno protettiva) per prevenire atti di violenza in danno degli operatori” (Corte d’Appello di Ancona, sentenza 13 febbraio 2025 n. 52)
La sentenza della Corte d’Appello di Ancona, Sezione Lavoro e Previdenza, n. 52 pubblicata il 13 febbraio 2025, che viene segnalata, è certamente di particolare interesse sia perché affronta una vicenda (purtroppo) di grande attualità – ovvero l’ennesimo episodio di violenza perpetrato ai danni del personale sanitario – sia perché riconosce per la prima volta la responsabilità indiretta dell’azienda sanitaria per i danni subiti da un proprio dipendente (infermiera) vittima di una aggressione da parte di una paziente.
La vicenda oggetto di causa concerne, in particolare, la pretesa risarcitoria avanzata da una infermiera nei confronti del proprio datore di lavoro, l’ASUR Marche, per i danni biologico e morale riportati a seguito di una aggressione subita da un paziente nell’anno 2017, mentre era in servizio al triage del pronto soccorso dell’Ospedale di Ascoli Piceno.
L’infermiera si rivolgeva al Tribunale richiedendo l’accertamento della responsabilità ex art. 2087 c.c. del proprio datore di lavoro (azienda sanitaria) e la conseguente condanna di quest’ultimo al risarcimento del danno biologico e morale subito a causa dell’aggressione di cui era rimasta vittima, sostenendo che l’azienda non avesse adottato adeguate misure di sicurezza volte a prevenire l’aggressione subita.
L’art. 2087 c.c. invocato dall’infermiera, rubricato “Tutela delle condizioni di lavoro”, prevede infatti che “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
L’azienda sanitaria si costituiva in giudizio opponendosi alla richiesta risarcitoria avanzata dalla propria dipendente, affermando di aver implementato misure preventive sufficienti a prevenire il rischio di aggressioni ai danni del personale sanitario.
In primo grado l’infermiera vedeva respinta la propria domanda, avendo il Tribunale escluso la responsabilità ex art. 2087 c.c. del datore di lavoro (azienda sanitaria) sulla base di un duplice presupposto: da un lato, l’insussistenza di “condizioni lavorative della ricorrente obiettivamente (anche solo potenzialmente) pericolose, in cui la prevedibilità del verificarsi di episodi di aggressione sia insita nella tipologia di attività esercitata dal lavoratore”; dall’altro, “l’accertata adozione di misure innominate da parte dell’azienda sanitaria atte a prevenire episodi di aggressione quale quello dedotto in giudizio (in particolare l’istituzione di un servizio di vigilanza esternalizzato)”.
L’infermiera impugnava quindi la sentenza di primo grado, ritenendo che il giudizio espresso dal Tribunale – alla luce degli elementi acquisiti all’esito dell’attività istruttoria svolta – fosse errato, tanto in relazione all’asserita mancata prova di una condotta colposa ascrivibile al datore di lavoro in relazione all’episodio di aggressione oggetto di causa, quanto in merito all’asserita inesistenza di un nesso causale tra l’ambiente di lavoro e il danno lamentato.
La Corte d’Appello accoglie l’appello ritenendo fondati i due motivi di gravame formulati dall’appellante, giudicando quindi l’azienda indirettamente responsabile dei danni subiti dall’infermiera a seguito dell’aggressione di cui era rimasta vittima, avendo l’azienda sanitaria violato l’obbligo di garantire un ambiente di lavoro sicuro (art. 2087 c.c.), non avendo predisposto misure adeguate per prevenire atti di violenza, come previsto dalla raccomandazione ministeriale n. 8/2007.
A tale conclusione la Corte approda dopo una attenta e precisa ricostruzione sia in punto di fatto che in punto di diritto della fattispecie oggetto di causa.
In punto di fatto la Corte evidenzia che: le modalità dell’aggressione sono pacifiche tra le parti e sono da ascrivere ad una reazione violenta di una utente del Pronto Soccorso che, innervosita dalla lunga attesa, perdeva il controllo inveendo fisicamente contro l’appellante; l’aggressione avveniva alle ore 19.15; il servizio di vigilanza istituito dall’azienda sanitaria era operativo solo dalle ore 20,00 alle ore 06,00 del mattino seguente, in una postazione unica ubicata presso l’ingresso principale del nosocomio, distante dalla sede del Pronto Soccorso.
Così ricostruita in punto di fatto la vicenda oggetto di causa, la Corte si chiede se la pretesa avanzata dall’appellante – la quale ritiene l’azienda sanitaria (datrice di lavoro) corresponsabile dell’aggressione subita avendo la stessa violato l’obbligo contrattuale di cui all’art. 2087 c.c., ovvero l’obbligo di garantire ai dipendenti una sicurezza relazionata allo specifico ambiente lavorativo – possa ritenersi fondata alla luce del quadro normativo vigente in materia.
La Corte ritiene fondata la pretesa avanzata dall’appellante sulla base del seguente iter argomentativo:
a) il fatto doloso del terzo (ovvero l’aggressione perpetrata dalla paziente ai danni dell’infermiera) non costituisce elemento idoneo a interrompere il nesso causale tra l’ambiente lavorativo e il danno psicofisico lamentato dalla lavoratrice a causa dell’aggressione subita; l’obbligo datoriale di tutela della salute dei lavoratori, ex art. 2087 c.c., infatti, concerne sia i rischi lavorativi (ovvero i rischi strettamente inerenti allo svolgimento della prestazione lavorativi), sia i rischi extralavorativi prevedibili ed evitabili alla stregua dei comuni criteri di diligenza (ovvero i rischi derivanti dall’azione di fattori esterni all’ambiente di lavoro, tra cui si colloca anche la condotta dolosa del terzo);
b) l’art. 2087 c.c. non contempla una forma di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità datoriale va comunque collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti da conoscenze sperimentali o tecniche del momento, al fine di prevenire infortuni sul lavoro ed assicurare la salubrità, ed in senso lato la sicurezza, in correlazione all’ambiente in cui l’attività lavorativa viene prestata; l’oggetto sostanziale dell’onere della prova liberatorio a carico del datore di lavoro attiene al rispetto di tutte le prescrizioni non solo dettate dalla legge ma anche di quelle suggerite dalla esperienza, dall’evoluzione tecnica e dalla specificità del caso concreto; tale onere probatorio non risulta essere stato assolto all’azienda sanitaria appellata;
c) l’applicazione di tali principi alla fattispecie concreta induce quindi a ritenere sussistente la responsabilità (seppure indiretta) della azienda sanitaria nella determinazione dell’evento lesivo ai danni dell’appellante, avendo quest’ultima fornito sufficiente prova della sussistenza di specifiche omissioni datoriali nella predisposizione di quelle misure di sicurezza, suggerite dalla particolarità del lavoro, dall’esperienza e dalla tecnica, necessarie ad evitare il danno, che erano in concreto esigibili con riferimento agli standard di sicurezza suggeriti dalle conoscenze del tempo e di normale adozione nel settore.
A tale conclusione la Corte perviene evidenziando come il Ministero della Salute con la raccomandazione n. 8 del novembre 2007 abbia specificamente emesso una disciplina tesa a “prevenire gli atti di violenza a danno degli operatori sanitari”, nella quale si analizza il fenomeno delle aggressioni al personale sanitario, illustrandone le cause e i fattori di rischio, e si forniscono indicazioni precise per avviare le azioni in concreto richieste per prevenire e gestire il fenomeno.
La Corte valorizza il contenuto della predetta raccomandazione ministeriale per evidenziare come la stessa, seppur caratterizzata da una vincolatività piuttosto sfumata, abbia comunque il condivisibile fine di aumentare la consapevolezza del potenziale pericolo di alcuni eventi, indicando le azioni da intraprendere per prevenire gli eventi avversi.
“Il che comporta che la Direzione Aziendale, quand’anche non avesse inteso recepire la raccomandazione n°8/2007, non era comunque esentata dall’onere di “predisporre una propria procedura per prevenire atti di violenza a danno degli operatori; il che comporta, quale logico corollario, che la A.S.U.R. Marche non può addurre l’imprevedibilità dell’aggressione per sfuggire alla responsabilità ex art.2087 c.c. per l’evento infortunistico in esame. Dei rischi correlati al pericolo di aggressioni al personale sanitario (in particolare di quello addetto ai “servizi di emergenza-urgenza”) la A.S.U.R. Marche era pienamente edotta, e va dunque ritenuta responsabile, ove non fornisca la prova di aver ideato ed attuato un programma protettivo in linea con quanto previsto dalla raccomandazione n°8/2007 o, quanto meno, una propria procedura alternativa (ma non meno protettiva) per prevenire atti di violenza in danno degli operatori”.
Tale prova non è stata fornita in giudizio dall’azienda sanitaria, essendo invece emerso dall’attività istruttoria come l’azienda avesse “di fatto adottato misure palesemente inadeguate alla entità del rischio di violenze nei confronti del personale sanitario, disattendendo così, di fatto, le analitiche prescrizioni indicate nella raccomandazione n°8/2007”.
L’azienda sanitaria, infatti, si è limitata a predisporre un servizio di vigilanza operativo nelle sole ore notturne (dalle ore 20,00 alle ore 06,00), con un’unica postazione ubicata presso l’ingresso principale del nosocomio, che si trovava ad una considerevole distanza dal Pronto Soccorso. Nessuna ulteriore misura di tipo logistico organizzativo e/o tecnologico necessaria a prevenire o controllare le situazioni di rischio identificate risulta essere stata adottata dall’azienda sanitaria, né tanto meno risultano essere stati adottati piani formativi aziendali rivolti agli Operatori sanitari, tesi ad addestrare il personale sulle procedure da adottare in materia di prevenzione degli atti di violenza da aggressioni nei servizi considerati a maggior rischio (tra i quali è certamente ascrivibile il servizio di Pronto Soccorso).
In definitiva, secondo la Corte, da un lato “non può sostenersi che l’aggressione subita dall’infermiera fosse un evento del tutto imprevedibile”, dall’altro risulta evidente che “l’azienda non ha curato di predisporre tempestivamente cautele particolari necessarie per neutralizzare alla fonte rischi che, alla stregua del notorio, possono considerarsi connaturali al tipo di attività svolta dall’appellante, a diretto contatto con utenti in situazione di (più o meno grave) stress da emergenza medica, dai quali non è del tutto improbabile attendersi reazioni comportamentali imprevedibili”.
L’esistenza di tale “evidente deficit di sicurezza”, imputabile all’azienda sanitaria, implica per la Corte che la stessa debba ritenersi “responsabile ex art. 2087 c.c. nella determinazione dell’evento lesivo denunciato dalla lavoratrice”.
La Corte ha quindi accolto l’appello presentato dalla lavoratrice e, per l’effetto, in totale riforma della sentenza impugnata, ha accolto la domanda risarcitoria dalla stessa avanzata, condannato l’azienda sanitaria a risarcire la dipendente di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali subiti a seguito dell’aggressione di cui è rimasta vittima, per un totale di € 22.147,90.